Stato-Mafia : la trattativa non esiste - Assolti Mori, Subranni e De Donno

  • 24 / 09 / 2021 240 Views

PALERMO - Ieri è stato posizionato un importante tassello in una vicenda che, sebbene (certamente) non conclusa, ha per anni coinvolto la nostra società, la nostra coscienza, il nostro essere servitori della patria. Oggi, la Corte d’Assise d’Appello palermitana ha statuito che tre ufficiali dei Carabinieri, tre servitori dello Stato, tre Uomini che credevano nel loro ruolo e nel loro compito, non hanno commesso un reato che macchiava la loro vita, non hanno tradito lo Stato con l’immonda piovra che è definita “mafia”.

Giovanni Falcone sosteneva che “possiamo sempre fare qualcosa” e che questa massima “andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto” e aveva ragione. Ma cosa possiamo fare per combattere un cancro che si annida, subdolo e spietato, all’interno di organi e apparati sani, infettandoli, ammorbandoli con la sua semplice presenza?!
Tre ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, tre Uomini che hanno fatto della loro vita una perenne battaglia contro il male, sono tre poliziotti, che hanno ritenuto di potere, di dovere, fare qualcosa.
Noi, come appartenenti alle forze dell’ordine siamo obbligati a chiederci dove ci dovrebbe (potrebbe) portare il desiderio di giustizia, siamo tenuti, machiavellicamente, a chiederci se il fine giustifichi o meno i mezzi e siamo sempre portati a rispondere a noi stessi in maniera discordante. In fondo il lavoro della giustizia dovrebbe essere quello di valutare i mezzi, perché è proprio con i mezzi che spesso si commettono crimini (efferati o meno) tanto che nello studio di molti reati sappiamo bene che proprio il fine ultimo, spesso, rileva come possibile circostanza aggravante della condotta (a volte dello stesso titolo di reato) ma non come valutazione sulla sussistenza o meno di una violazione. Questo ragionamento dovrebbe però portarci a riflettere sul significato del servire la collettività, sulla necessità di scendere a patti con sé stessi in nome di un (non sempre valutabile) bene supremo, in nome di un fine la cui importanza è così pregnante da portare in secondo piano gli stessi mezzi. Certo, dobbiamo anche chiederci chi o cosa dovrebbe decidere, valutare, stabilire quando il fine è così pregnante, necessario, da giustificare i mezzi?! Non noi, non la collettività, che non può essere chiamata a stabilire in quali casi sia lecito rinunciare a libertà fondamentali o accettare un patteggiamento morale di chi è chiamato a proteggerla, e allora chi, cosa? Il legislatore?! Ma l’ha già fatto! Le stesse norme che prevedono le privazioni delle libertà personali, le perquisizioni, i sequestri (solo per citarne alcuni), sono di per sé dei patteggiamenti morali, dei percorsi mentali a seguito dei quali è stato valutato remunerativo, necessario, essenziale, rinunciare a libertà fondamentali in nome di un fine superiore. Quindi, possiamo noi valutare autonomamente di deviare da un percorso di rettitudine morale che il nostro ruolo, il nostro lavoro ed i valori ad esso connessi, ci imporrebbero?!
A pensarci bene una risposta affermativa a tale quesito è proprio ciò che fa ogni appartenente alle forze dell’ordine, allorquando compie le normali azioni quotidiane che, in altri contesti, in altri frangenti, sarebbero palesi violazioni; la sua implicita ed intima giustificazione, l’implicita e intima giustificazione della sua condotta e delle norme applicate, gliela fornisce il fine. [leggi]

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